
Negli ultimi anni, il ruolo degli algoritmi dei social network nel plasmare l’opinione pubblica è diventato un tema centrale nel dibattito pubblico. Piattaforme come Facebook, Instagram, TikTok e X (ex Twitter) selezionano e mostrano contenuti in base alle preferenze degli utenti, con l’obiettivo dichiarato di massimizzare il coinvolgimento. Ma questa personalizzazione può trasformarsi in un meccanismo capace di influenzare, se non addirittura alterare, le opinioni politiche.
Gli esperti parlano spesso di “bolle informative”: spazi digitali in cui gli utenti vengono esposti principalmente a contenuti che confermano le proprie convinzioni. Gli algoritmi, riconoscendo ciò che piace o indigna, tendono a proporre materiale simile, limitando la diversità di punti di vista. Questo processo, in apparenza innocuo, può però amplificare polarizzazione e radicalizzazione.
La questione si complica ulteriormente in periodo elettorale. Studi accademici mostrano che la semplice modifica dell’ordine delle notizie o delle raccomandazioni può influenzare le percezioni di affidabilità delle fonti e persino il comportamento di voto. Pur non essendoci prove definitive di manipolazioni su larga scala, il potenziale è sufficiente a preoccupare sociologi e regolatori.
Le piattaforme respingono le accuse, sostenendo che gli algoritmi non hanno fini politici e che le scelte degli utenti restano il fattore principale. Tuttavia, mentre i governi discutono nuove norme sulla trasparenza, restano aperte domande cruciali: quanto davvero questi sistemi incidono sulla democrazia? E soprattutto, chi controlla chi controlla gli algoritmi?